il manifesto, 19 Aprile 2002 |
Una vita vissuta a metà
GIULIANA SGRENA
La storia di Zoya, giovane donna afghana militante della Rawa, raccontata da John Follain e Rita Cristofari. Per Sperling & Kupfer
Se non avessi conosciuto Zoya in un campo di profughi afghani in Pakistan, se non avessi incontrato tante militanti della Rawa (Revolutionary association of women of Afghanistan), se non avessi visto il lavoro da loro svolto nei campi o anche nelle scuole per i rifugiati a Islamabad o Peshawar, se non avessi visitato i loro orfanotrofi, se non avessi vissuto alcuni dei momenti che vengono raccontati nel libro Zoya la mia storia (Zoya con John Follain e Rita Cristofari, Sperling & Kupfer editori, Milano 2002, pp. 210, € 14,50) difficilmente potrei ritenerlo una testimonianza vera. E invece il racconto della vita di Zoya non è un puro artificio dei due autori: John Follain, corrispondente a Roma del Sunday times, e Rita Cristofari, giornalista che lavora con organizzazioni umanitarie. Eppure, la storia di una ragazza così giovane, con una infanzia così difficile costellata di violenze e lutti, è la vita di molte giovani donne afghane segnate dalla guerra vissuta dall'Afghanistan negli ultimi ventitre anni. Praticamente gli stessi anni di Zoya, una ragazza apparentemente fragile, dolce, vivace - come emerge dai suoi racconti -, che ha fatto della militanza il senso della sua vita. Anche per chi ha vissuto una storia di militanza quando il personale passava sempre in secondo piano - dopo la politica - ora risulta difficile capire tanta dedizione alla causa di Zoya, ma anche di tante altre donne, come lei, giovani e meno giovani. E soprattutto dei genitori descritti da Zoya, quando ancora piccola veniva affidata ad una nonna acquisita, l'unico affetto costante nella sua giovane vita. «Non ho mai avuto una vita personale e non ho rimpianti a questo riguardo. Non riesco a trovare nulla di bello in me che possa sollecitare lo sguardo di un uomo. Non ho mai desiderato che un uomo mi guardasse, né mi sono mai innamorata. Non provo nemmeno tristezza al pensiero di non avere mai conosciuto il piacere fisico». Sono le considerazioni amare di giovani costrette a negare il loro essere donne per far fronte a una situazione che le vuole cancellate dalla società. La violenza, le paure così interiorizzate, la frustrazione sessuale non colpisce solo chi nega un rapporto con l'altro sesso: l'apartheid provoca devastazioni molto più profonde, persino in chi lo combatte.
Per capire o almeno cercare di capire l'atteggiamento di Zoya occorre trovarsi di fronte alla forma più aberrante del fondamentalismo che per l'Afghanistan non è stato solo quello dei taleban, ma anche dei mujahidin, ed è tutt'altro che scongiurato anche ora. Proprio in questi giorni arrivano notizie di minacce contro le donne che lavorano o vanno a scuola e una insegnante è stata acidificata - secondo un rituale purtroppo ben noto in Pakistan e Bangladesh - a Kandahar, confermando le pessimistiche previsioni della Rawa sul futuro immediato dell'Afghanistan. «Solo se nel mio paese regnerà la pace e ci sarà una democrazia in cui l'uomo rispetta la donna, potrò pensare al matrimonio. E' fondamentale che il compagno con cui condividerò la vita abbia rispetto per me e per quello che faccio. In questo senso mio padre è un modello, perché rispettava mia madre e il suo lavoro», sostiene Zoya. Ma sono in molti in Afghanistan a rimpiangere i tempi che hanno preceduto l'arrivo al potere dei fondamentalisti. Persino ai tempi dell'invasione sovietica, che pure la Rawa ha combattuto - l'organizzazione, fondata nel 1977 con l'obiettivo di garantire l'uguaglianza per le donne, lottava per un Afghanistan libero e democratico -, le condizioni delle donne erano migliori. E soprattutto si rimpiangono i tempi del re, l'ex sovrano Zahir Shad che è rientrato a Kabul proprio ieri, dopo quasi trent'anni di esilio a Roma. «Avevo visto spesso per le strade di Kabul donne che si nascondevano sotto questi burqa. Mi sembravano così strane accanto alle giovani che se ne andavano a spasso allegramente sottobraccio, truccate con le minigonne. Le donne afghane si erano conquistate a duro prezzo il diritto di non portare il velo. Quando, nel 1959, il primo ministro e gli altri ministri avevano fatto un'apparizione pubblica assieme alle loro mogli e figlie senza velo, la reazione dei mullah era stata durissima», racconta Zoya.
«Nel 1989, quando avevo undici anni, i russi abbandonarono finalmente l'Afghanistan ... Non era tempo di festeggiamenti.. il 28 aprile 1992. Una giornata che non dimenticherò mai. Stavo facendo colazione con la nonna quando la radio annunciò che i mujahidin, superate le loro divisioni interne, avevano occupato Kabul. Anziché gioire per la sconfitta dei russi, la nonna mi disse che un male nuovo e peggiore avrebbe oppresso il paese». E al peggio non c'è fine, dopo i mujahidin sarebbero arrivati i taleban. Zoya era già in esilio e in Afghanistan sarebbe tornata solo clandestinamente nascosta sotto un orribile burqa.
E non è finita con la fuga dei taleban. L'incertezza della situazione induce le militanti della Rawa a non allentare le misure di sicurezza che ben sono descritte nel libro e che sono facilmente intuibili anche dietro i «buchi» che si notano nella vita di Zoya. Che comunque ha dimostrato un grande coraggio a raccontare la sua storia nel momento in cui è ancora costretta a vivere in un regime di semi-clandestinità. Una condizione di vita che limita tutte le militanti della Rawa, anche ora che persino a Kabul cominciano a cercare degli spazi per agire alla luce del sole, si tratta comunque soprattutto di attività sociali di tipo umanitario, aiuti alle famiglie più disagiate o corsi di alfabetizzazione che sono continuati nonostante il crollo dei taleban e l'arrivo del governo Karzai. La Rawa continua ad agire su un labile crinale che separa la clandestinità dalla legalità e finché sarà così anche la vita di Zoya sarà una vita vissuta a metà.