Diario, 7 giugno 2001 |
Zoia, la partigiana
DI Valentina Melis
Ha 23 anni, vive in un campo profughi del Pakistan, e lotta contro la dittatura dei Talebani. Quelli che invece di mandare i bambini al cinema, li portano a vedere le lapidazioni d'infedeli
Ha due occhi e una voce che non te l'aspetti. È una ragazza minuta, indossa i pantaloni e una giacca di velluto nero, la camicia un po' aperta sul collo. Appena la senti parlare, i suoi 23 anni sembrano molti di più. Racconta l'Afghanistan con forza, quasi con rabbia, in un inglese perfetto.
Zoia lavora per Rawa, l'Associazione rivoluzionaria delle donne afgane. Duemila persone che, tra l'Afghanistan e il Pakistan, cercano di strappare le donne e i bambini all'analfabetismo, alle malattie, alla morte. Tutto clandestinamente. Un'associazione fondata nel 1977 e attiva prima nella resistenza antisovietica, oggi nella lotta contro i Talebani. Zoia è al suo terzo viaggio in Italia, ospite di Amnesty International. Vive in un campo profughi del Pakistan, dove fa l'insegnante. Perché la prima battaglia è quella contro l'ignoranza. "Dopo il 1992", racconta, "quando i fondamentalisti hanno preso il potere in Afghanistan, hanno chiuso le scuole, soprattutto alle donne. Dicono che le porte della scuola sono la via per l'inferno, e il primo gradino verso la prostituzione. L'istruzione è assolutamente proibita. Ci sono corsi di religione, ma solo per ragazzi. Niente matematica, fisica, scienze. Lo studio del Corano e basta. Le nuove generazioni sono senza speranza. Non abbiamo avuto l'opportunità di una formazione, siamo lontani dalla conoscenza delle nuove tecnologie. Non ci sono tracce di progresso in Afghanistan.Troppa gente è quasi analfabeta". In un Paese economicamente distrutto, dove la vera fonte di ricchezza, per i Talebani al governo, è la produzione dell'oppio, la maggior parte della gente lavora nei campi, fa piccoli affari con la vendita di tappeti e di frutta. Ai bambini non resta che aiutare i padri nei campi o la madre nelle faccende domestiche. Sembra una vita irreale, quella delle donne che descrive Zoia. "Secondo la mentalità dei Talebani le donne hanno un cervello più piccolo di quello degli uomini. Sono tagliate solo per i lavori domestici, per accudire i bambini e per servire i mariti". Non possono uscire di casa se non accompagnate dal marito, dal fratello, dal figlio o dal padre. Non possono truccarsi, ridere rumorosamente in pubblico, usare vestiti bianchi, indossare scarpe col tacco. Solo il burqa. Un velo che le copre dalla testa ai piedi. Per gli uomini l'unico obbligo nel look è quello di portare la barba.
"La vita è una tortura per le donne, insultate, picchiate, mutilate", continua Zoia, "questa è una routine per l'Afghanistan". Una routine che il sito di Rawa (www.rawa.org) fa conoscere al mondo con decine di storie e fotografie. Come quella di Laida Omid, 20 anni, che si è uccisa dandosi fuoco a Herat il 24 aprile del 2000. O di Salehah, morta a ottobre del 1999 con ustioni su tutto il corpo dopo essere stata picchiata e data alle fiamme dal marito, ingegnere dell'aviazione.
E le donne che hanno studiato? Le donne medico, avvocato, ingegnere? "Ce ne sono", dice Zoia, "sono donne che hanno studiato in passato, prima dell'invasione russa e durante l'occupazione sovietica. Ma dal 1992, da quando le scuole e le università sono chiuse, le librerie e i libri sono stati bruciati dai fondamentalisti, tutte le donne stanno a casa e si dedicano ai lavori domestici. La situazione è molto difficile per le vedove, che spesso hanno perso il marito durante la guerra. A loro non restano che la prostituzione o il suicidio".
In Afghanistan non ci si può divertire. Il regime ha abolito le tv. Esiste una radio che trasmette le notizie dei Talebani e canzoni religiose, senza strumenti musicali. Le fotografie sono proibite. "Hanno perquisito tutte le case dove c'erano televisori, cassette, film e li hanno portati via. Li appendevano agli alberi, in modo che la gente potesse vederli. Per ricordare che chi teneva un televisore, rischiava di essere scoperto e picchiato pubblicamente per punizione".
Una macabra forma di intrattenimento c'è. Sono proprio le esecuzioni e le punizioni pubbliche nello stadio Olimpico di Kabul. Lapidazioni, taglio delle mani, frustate, pestaggi. "A Kabul il venerdì, in altre province un altro giorno della settimana", racconta Zoia "c'è l'annuncio per radio, che invita la gente a partecipare numerosa per assistere a questi eventi. In quei momenti i negozi devono essere chiusi. Partecipano uomini, donne - sempre accompagnate - e bambini. Ho visto tantissimi bambini di tutte le età assistere a queste scene, ogni settimana. Li ho visti ridere quando a una persona tagliavano le mani. Perché è diventata una cosa normale, per loro, vedere queste cose. Una mia collega si è trovata di fronte due bambini che giocavano con le mani amputate, perché, dopo, le appendono agli alberi. Le lasciano lì. E loro ci giocavano! Quale può essere il futuro di questi bambini? Saranno i criminali del domani. Non possono crescere altrimenti".
POCHIOSPEDALI. Le donne in Afghanistan devono augurarsi di stare in buona salute. Non possono farsi curare da medici maschi, e pochissimi ospedali sono aperti anche a loro. "Se una donna muore, è meglio, nella mentalità dei fondamentalisti, piuttosto che vada da un medico maschio. Se muori per la mancanza di un medico vai in paradiso, ma se vai da un medico maschio vai all'inferno. Nei campi per rifugiati le donne e i bambini muoiono come animali, perché nessuno si prende cura di loro" (come dimostra anche la vicenda dell'ospedale di Emergency, preso di mira perché "irrispettoso" delle leggi talibaniche). Le militanti di Rawa cercano di offrire servizi sanitari gratuiti in Afghanistan e in Pakistan, mettono in piedi postazioni mediche e di pronto soccorso dove ce n'è bisogno.
Non ci sono giornalisti afghani a raccontare quello che succede. I giornalisti stranieri possono entrare se ottengono il permesso dall'ambasciata dei Talebani in Pakistan. Non possono scattare fotografie. Possono filmare i luoghi, non uomini o donne. Perché è proibito riprendere le persone.
"E comunque", attacca Zoia, "i giornalisti non scrivono tutto quello che succede. Quando sono state distrutte le statue dei Buddha di Bamyian, in quella provincia c'è stato un massacro. Proprio in quei giorni i Talebani hanno ucciso più di 300 persone in un villaggio. Nessuno ne ha saputo niente. La stampa non parla di queste tragedie. Parlano della Palestina, del Kossovo, ma non dell'Afghanistan. Dopo tanto tempo, hanno rotto il silenzio per parlare delle statue, ma non del sangue che si sparge nel Paese. È un insulto per quei morti. Anche per noi le statue di Buddha erano importanti, ma non più del sangue della nostra gente".
ILGENERALEMASSUD. Zoia mantiene la voce ferma, misura i movimenti delle sue mani, ma vuole che la freccia arrivi dritta nel segno quando se la prende con i Paesi stranieri che ignorano la situazione dell'Afghanistan. O meglio, dice, la sfruttano. "Alcuni Paesi, come Stati Uniti, Pakistan, Iran, Arabia e Francia sostengono i nostri nemici: sia i Talebani, sia il partito del generale Massud, che è molto noto in Occidente (Ahmed Shah Massud è il capo dell' opposizione anti-Taleban in Afghanistan, ndr.). L'Italia e altri Paesi, stanno in silenzio. Non dicono niente né contro i Talebani né a sostegno del nostro popolo. Anche l'Onu e l'Unione europea sostengono Massud. Il Parlamento europeo lo ha ricevuto e questo per noi è un grande insulto. Dimenticano quello che è successo dal 1992 al 1996, quando il suo partito era al potere. Tutti hanno interessi politici ed economici in Afghanistan, per sostenere questi criminali. Il nostro Paese ha una posizione strategica nel cuore dell'Asia".
Secondo Zoia, anche la lotta degli Stati Uniti contro il terrorista Osama Bin Laden è un'operazione di facciata: "Per una superpotenza come loro, sarebbe un gioco farsi consegnare Osama, che è una delle fonti di denaro dei Talebani. Ma vogliono far credere che quello dei Talebani sia un governo indipendente e che loro non lo sostengono".
MINACCETELEFONICHE. Zoia non vuole abbandonare la sua terra. Non vorrebbe mai vivere in Occidente, dice. Ha parenti negli Stati Uniti e in Germania che sarebbero pronti ad accoglierla, ma per lei sarebbe una sconfitta scappare. Anche se è orfana dall'età di otto anni, anche se non può fare niente di quello che fa una ragazza della sua età in altre parti del mondo.
Quando le chiedo se è pericoloso, per lei, uscire dal suo Paese e far conoscere Rawa, mi guarda dritto negli occhi e sorride: "Tutto quello che facciamo è pericoloso. La nostra fondatrice Meena è stata uccisa dai fondamentalisti nel 1987. Riceviamo continuamente minacce per telefono, per iscritto, per e-mail, perché facciamo conoscere al mondo i misfatti dei Talebani e vogliono imporci il silenzio. Chi lavora per Rawa rischia in ogni momento di essere ucciso o arrestato".
Per questo le piccole classi scolastiche messe insieme dalle donne di Rawa cambiano continuamente sede. E per questo Zoia è un nome falso. Il nome di una partigiana uccisa con un colpo al cuore nell'ex Unione Sovietica.